DIRITTO MILITARE Il reato di disobbedienza: profili generali.

L’art. 173 c.p.m.p. disciplina il reato di disobbedienza ed è il primo tra gli illeciti che il legislatore delinea al Titolo III, dedicato ai “reati contro la disciplina militare”. 

Preliminarmente, occorre stabilire cosa si intenda per disciplina militare. 

Ai sensi dell’art. 1346 c.o.m., la stessa consiste “nell’osservanza consapevole delle norme attinenti allo stato di militare, in relazione ai compiti istituzionali delle Forze Armate e alle esigenze che ne derivano. Essa è regola fondamentale per i cittadini delle armi in quanto costituisce il principale fattore di coesione e di efficienza”. 

Da questa definizione emerge, però, anche un aspetto etico-psicologico. La “disciplina militare”, infatti, non si sostanzia meramente in una regola tecnica, ma si traduce anche in una prescrizione di condotta che investe profili squisitamente etici del comportamento militare: fedeltà, onore, lealtà, coraggio, obbedienza. 

Tornando, quindi, alla specifica tematica dell’obbedienza, l’art. 1347 c.p.m.p. la qualifica come “l’esecuzione pronta, rispettosa e leale degli ordini attinenti al servizio e alla disciplina, in conformità al giuramento prestato”. Dunque, “il militare che rifiuta, omette o ritarda di obbedire a un ordine attinente al servizio o alla disciplina, intimatogli da un superiore, è punito con la reclusione fino ad un anno” (art.173 c.p.m.p.). 

È chiaro, pertanto, che il soggetto attivo del reato deve essere necessariamente un militare. 

Il delitto di disobbedienza presuppone, poi, l’emanazione di un ordine. Non è, però, necessario che esso provenga da un superiore in grado rispetto al destinatario dell’ordine medesimo. Dal principio di gerarchia, infatti, emerge come il rapporto di subordinazione, dal quale deriva, a sua volta, il dovere di obbedienza, sussista sia rispetto a superiori di grado sia rispetto a militari di pari grado o di grado inferiore investiti di funzioni di comando o di carica direttiva, nei limiti però delle attribuzioni loro conferite. 

Pertanto, la superiorità può scaturire dal grado o dal comando su di un piano formalmente funzionale.

Proseguendo nell’analisi della fattispecie criminosa, l’elemento oggettivo del reato di disobbedienza può essere rappresentato da un rifiuto, da un’omissione o da un ritardo di obbedienza. 

Con rifiuto si intende un’espressa dichiarazione di volontà, volta ad esprimere il proposito di non ottemperare. Si tratta di una radicale antitesi rispetto all’ordine intimato. 

Con riferimento al ritardo, invece, occorre valutare la specificità di ogni singola situazione. 

Infatti, il reato di disobbedienza non è integrato qualora, pur in mancanza di un immediato, solerte adempimento, la condotta posta in essere dal militare non comporti alcun pregiudizio al buon andamento della struttura militare medesima. È, invece, evidente che quando l’ordine, per le sue connotazioni o per effetto dell’espressa dichiarazione di volontà del superiore, debba essere adempiuto entro un certo lasso di tempo, l’esecuzione successiva a tale limite temporale configurerà il reato in discorso. 

L’elemento soggettivo dell’illecito, invece, è costituito dal dolo generico. Esso è escluso unicamente dall’errore di fatto.

Giunti a questo punto, è opportuno richiamare anche le caratteristiche che l’ordine intimato deve possedere (art. 727 D.P.R. 90/2010).

Esso deve essere formulato con chiarezza in modo da evitare dubbi o esitazioni in chi lo riceve. Secondariamente, deve essere formalmente e sostanzialmente legittimo. 

L’art.1349 c.o.m., inoltre, precisa che gli ordini devono, conformemente alle norme in vigore, attenere alla disciplina, riguardare le modalità di svolgimento del servizio e non eccedere i compiti di istituto”.

Quanto al militare che riceve il suddetto ordine, costui non ha solo la possibilità di adempiere puntualmente e prontamente; può, infatti, evidenziare tempestivamente al superiore le ragioni ostative all’esecuzione dell’ordine. Se la comunicazione è tempestiva, la disobbedienza non sussiste in tutti i suoi elementi ed esclude, pertanto, il concretizzarsi del reato.

Inoltre, anche il dovere di agire d’iniziativa può parimenti giustificare la mancata esecuzione di un ordine precedentemente impartito. Il militare, infatti, assume l’iniziativa non solo in assenza di ordini e nell’impossibilità di chiederne o di riceverne, ma anche se non può eseguire per contingente situazione gli stessi, oppure se sono chiaramente mutate le circostanze che ne avevano determinato l’emanazione. Tutto ciò, ai sensi dell’art. 726 co. 2 del T.U.O.M.

È opportuno, infine, prendere in considerazione ancora due situazioni che potrebbero prospettarsi. 

La prima si verifica nel caso in cui all’ordine intimato faccia seguito uno diverso proveniente da altro superiore, magari contrastante con il primo. In questa ipotesi, l’art. 729 co. 1 lett. c) dello stesso T.U. impone al militare di fare presente l’esistenza di contrasto con l’ordine ricevuto precedentemente. Qualora, però, il secondo ordine venga ribadito, sarà tenuto ad eseguirlo e ad informare, appena possibile (si presume anche il carattere di immediatezza), il superiore dal quale aveva ricevuto l’ordine rimasto inadempiuto. 

La seconda circostanza, invece, si realizza allorché al militare venga impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisca manifestamente reato. In questo caso non solo non può, ma non deve eseguire il suddetto ordine (artt. 1349 co. 2 C.O.M. e 729 co. 2 T.U. O. M.).

Un’ultima precisazione riguarda le modalità di comunicazione dell’ordine al sottoposto: qualora costui non sia immediatamente presente, né sia possibile comunicargli l’ordine per telefono o con mezzi telematici, il comando può essergli trasmesso per interposta persona, mediante un nuncius (colui che riporta per conto di un altro soggetto una dichiarazione). Se, però, quest’ultimo, nella sua esposizione, faccia apparire come mero consiglio quello che in realtà è un ordine, in caso di mancata esecuzione non sarà configurabile il reato in esame.

È evidente, quindi, che chi emana l’ordine deve sempre rendere chiara, al soggetto destinatario, la natura di tale atto, onde evitare che esso possa venire considerato come un’esortazione o come un suggerimento, cosa che lascerebbe l’inferiore libero di decidere se aderirvi o meno.

In altri termini, l’ordine si deve palesare sempre in modo inequivocabile.

Avv. Francesco Paolo MASTROVITO

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